Fecondati ogni volta che ami


Come accennavamo nel post "Nelle mani dell'Altro", la nascita di un figlio, rappresenta (o dovrebbe rappresentare) prima di ogni altra cosa, il segno di una disposizione alla trasformazione: qualcosa che ero io e che è diventato altro da me, proprio grazie a un incontro d'amore con lui o con lei che mi hanno alterato, da cui mi sono lasciato alterare, cui mi sono abbandonato fino a permetterle/gli di entrare in me e mutarmi, cambiarmi tanto da fare di me un Altro-me che mi somiglia, ma che non sono io.

Questo dovrebbe succedere nell'amore: far sì che nasca un terzo meticcio, qualcosa che non sono io, che non sei tu, ma che siamo noi. E, forse, questo riferisce il comandamento cristiano quando impone: "Non commettere atti impuri" (a destra la locandina dell'omonimo film di Giulio Petroni con Barbara Bouchet che all'epoca, 1971, promosse non pochi atti impuri) ossia, secondo l'esegesi: non disperdere il seme o, in altri termini: essere fecondi in ogni atto d'amore. 

Un diktat che, come spesso accade coi dettami religiosi, non va letteralmente inteso, riducendolo alla castrante costrizione di una sessualità piegata alla sola finalità riproduttiva, ma che, invece, deve evocare l'idea che ogni incontro d'amore sia sempre fecondo, capace cioè di fare di due un'anima sola, quel noi in cui ognuno si abbandona alla forza alterante dell'Altro e si gioca le sue possibilità trasformative.

"Nessun bimbo mortale è stato concepito," suggerisce l'angelo di quel capolavoro che è "Il cielo sopra Berlino" di Win Wenders, dopo che ha incontrato la donna per cui ha scelto di diventare umano, "Nessun bimbo mortale, ma un'immagine immortale" e, poco più avanti: "[...] l'immagine che abbiamo creato, sarà l'immagine che accompagnerà la mia morte, in questa immagine avrò vissuto.".

Questa immagine immortale, estremo atto dell'incontro d'amore, che spesso trova asilo nella carne mortale di un figlio, testimonia (o -appunto- dovrebbe testimoniare) la volontà, e la disposizione a lasciarsi tanto mischiare, tanto plasmare, tanto trasformare da creare, a partire da noi, davvero un Altro: s/oggetto che siamo e che non siamo, opera della nostra trasformazione.

Questa è la potenza dell'incontro d'amore: un simbolo che unisce due elementi diversi e distanti in qualcosa che li contiene e li supera al contempo, dando ragione a tutto l'universo di attenzioni e cure che dovrebbe accompagnare le relazioni umane: l'opera che insieme io e te creiamo e in cui si palesa non solo la nostra trasformazione ma soprattutto la nostra possibilità di trasformarci.

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