L'Amore nel gorgo del III° millennio

Giovedì 8 novembre ho avuto il piacere di partecipare al convegno dell'Asl della Provincia di Milano 1: "Destinazione Famiglia", tenutosi a Rho, presso il Collegio dei Padri Oblati. Pubblico qui un estratto del mio intervento che bene riassume molti dei temi trattati in questo blog.

Nel marzo 2012 ho avuto il piacere di pubblicare, per i tipi di Firera & Liuzzo Publisching, un libro dal titolo "L'Amore alla Fine dell'Amore" in cui affrontavo il tema delle crisi d'amore che portano alla separazione e al divorzio e alla possibilità che queste siano gestite attraverso un percorso di mediazione familiare che non neghi l'utopia che un nuovo amore, un amore diverso, possa sorgere dalle ceneri del precedente, non per una qualche beghina ideologia antidivorzista, ma affinché, scegliendo la strada del farsi del bene anziché quella del farsi del male, si possa aspirare al pieno e copioso accesso ad un benessere che veda presente e futuro, da coniugi o da divorziati, come risorsa generativa e non come pretesto distruttivo, per sé e, soprattutto, per gli eventuali figli coinvolti.

Ora, con il medesimo intento, prosegue la mia riflessione in uno specifico blog su internet (www.amoreciao.blogspot.com) dove, più o meno settimanalmente, raccolgo riflessioni in questa direzione e, in occasioni meno virtuali, come convegni e presentazioni, in cui cercò di condividere questo sguardo in una sorta di elaborazione, di studio condiviso che prosegue il discorso annunciato nel libro allargando il campo delle osservazioni non solo alla coppia, ma alla coppia nel contesto epocale in cui viviamo che, a mio avviso, può ugualmente dirsi “dell'amore alla fine dell'amore”, denunciando cioè come l'amore, almeno per come lo conosciamo e pratichiamo, è arrivato al suo capolinea e necessita quindi di una riconfigurazione che ci aiuti meglio a comprendere cosa è diventato e come poterne adeguatamente fruire.

Mi piace definire questo contesto epocale in cui i vecchi paradigmi di definizione dell'amore sembrano non più corrispondere con le esigenze e gli agiti degli uomini, con le parole con cui Umberto Eco, nel suo "Postille al nome della rosa", descrive il concetto di post-moderno, periodo storico in cui, secondo molti, siamo immersi: “Penso all'atteggiamento postmoderno," scrive Eco, "come quello di chi ami una donna e, molto colto, sappia che non può dirle: 'Ti amo disperatamente', perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia, c'è una soluzione. Potrà dire: 'Come direbbe Liala, ti amo disperatamente'. A questo punto, avrebbe evitato la falsa innocenza, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dire: che l'ama, ma che l'ama in un'epoca di innocenza perduta.”.

A ben vedere, sembrerebbe proprio che la gran parte delle fenomenologie che caratterizzano la nostra epoca costringano l'umano, laddove voglia comprenderle ma, soprattutto, cercare di evitarne gli effetti negativi, ad abbandonare questo sguardo ingenuo di cui dice Eco. Si tratta di una richiesta del tutto nuova, che mai prima d'ora era emersa con questa potenza -potenza che pare aumentare, interrogando e fagocitando nuove aree della società, con una progressione direttamente proporzionale agli (apparenti) livelli di libertà che la stessa società dispone a favore dei suoi individui.

Dobbiamo rifarci a Erich Fromm per comprendere questa particolare configurazione dell'uomo post-moderno, quando, in "Fuga dalla libertà", ci fa riflettere su come la condizione di schiavitù che ha caratterizzato la vita della gran parte degli umani vissuti nelle epoche che hanno preceduto la fase di progressiva democratizzazione del globo (per altro ancora in progress), vada anche letta come deresponsabilizzazione delle scelte che erano demandate a dio, al re, al principe, al feudatario, al padrone e, via via, a tutte le figure della gerarchia sociale: il prete, il medico, l'insegnante, le forze dell'ordine... Condizione che se, appunto, evirava spazi di libertà, concedeva al contempo quella spensieratezza dell'esistere, tipica ad esempio dell'infanzia, quando qualcuno decide per noi e noi, pur subendo quella scelta, siamo sottratti alla fatica necessaria cui la scelta chiama e -appunto- alla responsabilità delle sue possibili conseguenze.

Psi pensi, per fare un esempio ancora molto recente di questa trasformazione, che quindi gran parte di noi ha avuto modo di sperimentare personalmente, al rapporto che avevamo fino a qualche decennio or sono con alcune figure emblematiche della società, come il medico o l'insegnante, la cui parola-verità era per lo più indiscutibile e che ora, invece, perduta (per diverse concause) la loro aurea sociale, sono largamente messi in discussione con, ad esempio, consulti di varia tipologia e natura prima di decidere -appunto- come curarsi e da chi farsi curare o, nel caso della scuola, con intrusioni della famiglia non solo negli aspetti educativi, ma anche nella didattica.

Insomma, come bene dice Edgar Morin: l’uomo è per natura un animale complesso, la differenza col passato è che oggi questa complessità ci salta addosso, non possiamo più evitarla, dobbiamo farcene carico ognuno personalmente. Le regole, i dettami morali, le ritualità che garantivano una certa coesione sociale si stanno progressivamente sfaldando sotto i colpi di piccone di ogni legittima richiesta di libertà individuale, il problema è che questa libertà, per essere gestita adeguatamente e non fare danni, deve comprendere anche elevati livelli di consapevolezza di sé, del mondo e dei fenomeni che lo sollecitano, quella che appunto Eco chiama "perdita di ingenuità".

Il rischio di una libertà non accompagnata da adeguati strumenti per gestirla, porta, infatti, paradossalmente, ad una obversione della libertà stessa che si accartoccia su se stessa quando ognuno di noi è, ad esempio, chiamato a prendere decisioni su argomenti talmente complessi (si pensi alla genetica, al nucleare, all'eutanasia) da rendere praticamente impossibile la scelta, se non optando per vie puramente emotive -e, in effetti, le fenomenologie e le questioni che attraversano la nostra società, e per cui le persone sono chiamate a scegliere, prevedono una tale e sofisticata conoscenza e su una tale quantità di problematiche che l'uomo comune, pur istruito, non è in grado di affrontare, anzi, su cui si dividono gli stessi esperti.

Tra queste scelte complesse cui siamo chiamati l'amore, e in particolare quell’amore che diviene coniugale e si connatura nella famiglia, non fa eccezione, anzi, in un certo senso, quando focalizziamo sull'amore coniugale e sulla famiglia le riflessioni appena trattate, le cose si fanno assai più insidiose. Vediamo come...

Anzitutto dobbiamo riflettere sul carattere di novità della famiglia contemporanea. La tradizione e lo studio delle culture umane ci ha reso, infatti, dotti sul fatto che, pur esistendo in tutte le civiltà una qualche ritualizzazione che celebra l'unione tra due persone, questa nulla ha mai avuto a che fare con un desiderio omogeneo dei due partner, quello che i poeti chiamano “amore”. Il fatto che ci si sposi, si faccia famiglia, per amore è parte di una visione assai recente che inizia culturalmente con il Romanticismo ma non si concretizza, nelle pratiche sociali di larga scala, prima degli anni Sessanta del secolo scorso.

Prima di allora, e in una certa parte del mondo tutt'oggi, il matrimonio, o le sue trasformazioni, sono, anzitutto, mero strumento riproduttivo e conservativo del patrimonium (il matrimonium, invece, attiene al femminile e riguarda la cura della prole), mentre alcune culture riservano all'amante il ruolo della passione amorosa. Nelle società tradizionali, insomma, non c’è spazio per le scelte del singolo che sono sempre conseguenti alle necessità della famiglia, del gruppo, della società, per questo amore e matrimonio viaggiano su due binari diversi: al primo (laddove emerga come esigenza, e non è detto che emerga) non consegue necessariamente un progetto di vita comune, quanto il (fugace) spazio della passione; il secondo non definisce una relazione amorosa, quanto l'unione di due famiglie o gruppi parentali che, attraverso quell’unione, si garantiscono un qualche tipo di continuità e sopravvivenza.

Questa modalità di vivere la relazione di coppia è talmente lontana dal nostro modus operandi, da sembrare oggi retaggio di una cultura non solo liberticida ma finanche contraria alla natura umana, tanto che si fatica a credere fosse norma comunemente accettata e praticata.

La domanda che a questo punto sovviene, non è differente da quella emersa nella disamina più generale: siamo davvero sicuri di possedere tutti gli strumenti per gestire adeguatamente questa libertà? Quali sono i rischi che stiamo correndo e che in passato sembravano non sussistere o sussistere in modo assolutamente marginale? Non è forse vero, e un po' paradossale, che, a differenza del passato, proprio oggi che amore e matrimonio sembrano coincidere, oggi che, insomma, ci sposiamo per amore, oggi il matrimonio non è mai stato così precario, tanto che le separazioni sembrano avviate a superare di gran lunga le unioni mettendo anzitutto in discussione, al di là dei singulti amorosi, il sistema ben più fondante e socialmente regolante della famiglia cui l'amore era, non a caso, subordinato fino appunto alla seconda metà del Novecento?

I motivi per cui assistiamo a questo fenomeno del tutto inusitato (soprattutto se teniamo in conto che in ogni società da che l'uomo è sapiens le unioni, la famiglia, rappresentano un elemento fondante per il funzionamento delle comunità -buono o cattivo che sia, su questo ci sarebbe molto da discutere) di destabilizzazione e fragilità delle unioni sono complessi e molteplici.

Per prendere un capo dell'intricata matassa, si pensi ad esempio alle ricerche di stampo scientifico che si divertono a tradurre in freddi processi biochimici la misteriosa poesia della natura umana. Questi scienziati pare abbiano individuato alcuni dei meccanismi che inducono l’amore, dimostrando che, quando ci innamoriamo e nelle fasi che succedono all'innamoramento, si scatenano nel nostro corpo tutta un serie di reazioni biochimiche che inducono sensazioni di euforia, attrazione, desiderio, passione e, poi, via via che la conoscenza dell'Altro si fa più profonda, tenerezza, calore, cura... Insomma una grande iniezione di sostanze psicotrope che stimolano il nostro cervello e ci spingono a volere determinate cose e a reagire in quel destinato modo che chiamiamo “amore”.

Ma, ahinoi, madre natura, ci informano queste ricercje, ci dà una spinta, non ci sorregge per sempre. Infatti, questa fantastica reazione pare destinata a durare ben poco: dai 35 ai 45 mesi (se ci pensate, un tempo base minimo per la cura di quel particolare cucciolo di uomo che per sopravvivere necessità, unico tra gli animali, di essere accudito per molto tempo), dopodiché il cervello, come un vero tossicodipendente, si assuefà e non reagisce più a quegli stimoli che un tempo lo facevano sballare. E’ a questo punto che, se non entrano in campo altri elementi, può iniziare la crisi.

Quali erano un tempo questi elementi che entravano in azione: be', uno su tutti: la subordinazione del femminile (economica, culturale, sociale, sessuale) che vincolava quest'ultimo ad una costrizione in cui era chiamato, volente o nolente, a fare famiglia; quindi tutta la sequela di vincolanti norme morali e dettami sociali che anteponevano le esigenze della società a quelle degli individui, in primo luogo gli individui ancora una volta di sesso femminile. Tali elementi garantivano una sostanziale continuità alla vita non solo della famiglia ma dello stesso amore coniugale, per quanto non sempre fossero in grado di garantire il benessere individuale.

Poi, sono sopraggiunte alcune delle più grandi e irrinunciabili (è bene sottolinearlo per non essere fraintesi) rivoluzioni del secolo scorso a mettere in discussione l'amore così come lo conoscevamo e come ci è stato tramandato: l'emancipazione del femminile, la libertà sessuale (anche segnata da più sofisticati sistemi di contraccezione), la legge sul divorzio e, in un certo senso, anche la legge sull'interruzione di gravidanza; insomma, una serie di grandi cambiamenti che hanno inciso profondamente su quelle libertà individuali la cui limitazione garantiva una certa coesione sociale.

L’errore, ovviamente, non è da imputare alla bontà di questi cambiamenti, tutti da ascrivere tra le grandi conquiste della civiltà umana (conquiste per cui, tra l'altro, ancora molto c'è da lavorare), semmai l'errore sta nell’aver creduto che questi cambiamenti non dovessero essere supportati da adeguati percorsi educativi in grado di sopperire, con un salto individuale di consapevolezza, laddove veniva meno la coercizione -errore per altro assai comune a tante fenomenologie che attualmente ci interrogano e ci soverchiano dal loro versante negativo.

Una delle caratteristiche di quello strano animale che, con un po’ di supponenza, si è autoproclamato sapiens, si concreta proprio nel fatto che spesso evolve senza predisporre opportuni rimedi capaci di rispondere con consapevolezza ai cambiamenti e alle innovazioni che sempre alterano la natura dei nostri interessi (ossia le cose a cui pensiamo) e alterano la natura dei nostri simboli (ossia le cose con cui pensiamo) e infine alterano le nostra comunità (ossia il terreno di coltura in cui i pensieri trovano approdo e generano consuetudini).

Così, nell’era dell'amore liquido, come Bauman definisce le relazioni di coppia del nostro tempo, alcune straordinarie rivoluzioni come -appunto- la libertà sessuale, l'emancipazione femminile, il divorzio, sembrano non essere riuscite a produrre, almeno su larga scala, la loro reale carica innovativa e evolutiva, e sempre più spesso si palesano, invece, quali involuzioni che generano fenomeni di malessere sociale non solo incontrollato, ma, ancor prima e ancor peggio, insaputo.

Le conseguenze delle grandi rivoluzioni cui è stato sottoposto l'umano negli ultimi cento anni, rivoluzioni che non hanno paragone per intensità e propulsività, con nessuna delle epoche storiche che la civiltà umana ha attraversato, hanno indotto profondi mutamenti nel pensiero e nelle pratiche degli uomini contemporanei le cui prime e più gravose influenze si registrano, evidentemente, nei singoli individui e nelle loro relazioni primarie per poi riverberarsi nella società tutta.

Non abbiamo il tempo e lo spazio per approfondire, per quel che concerne l’amore, il vasto elenco delle conseguenze di questo fenomeno cui va necessariamente data una lettura sistemica; ne elenchiamo molto succintamente alcune partendo dal presupposto che non esiste un'idea univoca dell'amore di coppia e che questa si conforma ai dettami e agli usi dei luoghi e delle epoche configurandosi in veri e propri miti che, spesso, divengono li-miti.

Quali sono quindi i li-miti che sembrano emergere nella nostra contemporaneità? Se dovessimo riassumerli in un'unica categoria potremmo dire: la fatica di consegnarsi all’Altro: la fatica di lasciarsi alterare aprendosi a ciò che non siamo.

Quasi tutti i limiti dell'amore contemporaneo sembrano poggiare, infatti, su una sorta di resistenza all’intrusione altrui, una specie di barriera, di muro più o meno invalicabile posto di fronte alla possibilità che l’Altro mi sconfini, mi attraversi, disvelandomi.

Uno dei li-miti che maggiormente minano le coppie odierne è, ad esempio, quello dell’indipendenza o, meglio, di una indipendenza, male educata, che cioè ha smarrito quell’equilibrio instabile su cui si regge la sua costruttiva configurazione, quell’equilibrio che si giostra tra autonomia e dipendenza e prende il nome di “interdipendenza”, condizione in cui entrambe le parti in gioco si dimostrano capaci di vivere con benessere i momenti di separazione pur riconoscendo il bisogno dell’Altro e operando in funzione del ricongiungimento.

Fa più o meno coppia gregaria al mito dell’indipendenza quello di una libertà totalizzante che non sta nella natura dell'amore. E’ chiaro che la relazione d’amore non può essere il luogo di una soffocante prigionia in cui, rispetto alla condizione precedente, si riducono i limiti della mia possibilità d’azione; l’amore, quando è autentico, è invece e viceversa il luogo della libertà, ma non di una libertà solipsistica, bensì di nuova frontiera della libertà: quella che si manifesta nell’incontro con il territorio dell’Altro. Si tratta, insomma, di una libertà non sperimentabile individualmente, una libertà che si concreta nel passaggio dall’unità alla diade e che mostra tutti i suoi vantaggi e le sue nutritive conseguenze proprio quando si confronta con la libertà dell’Altro e trova con l’Altro i modi e i tempi per costruire una libertà terza, capace di non minare le spaiate libertà che ognuno può sperimentare singolarmente, ma consapevole, al contempo, che quelle singole libertà, nella relazione d’amore, non potranno più essere assolutizzate, pena l’impossibilità di trovare insieme quella libertà terza in cui la relazione di coppia cresce e si nutre.

Ultimo, ma non ultimo (e perdonate questo borderò veramente troppo riduttivo), il mito della felicità, ossia di un approccio alla vita a due che sembrerebbe faticare ad accettare la dimensione della fatica e del sacrificio che vivere con l'Altro comporta, pensando alla felicità non come processo e conquista, una felicità in potentia, insomma, ma come stato quotidiano senza il quale non rimane che la crisi.

Una ricerca di felicità eterna che non si fa fatica a rintracciare in quella promessa di godimento assoluto insito in ogni "tentata vendita" su cui si erge il motore del nostro sistema economico.

Cosa cercheranno, dunque, questi uomini e queste donne in quella relazione complessa che è l'amore di coppia dove la felicità è fatica e processo e progetto non solo potenziale (quindi non garantito) ma da confrontare e mediare con la felicità di un Altro che mi somiglia ma mai fino al punto da essere a me coincidente?

Forse per questo uno dei malesseri dell'amore contemporaneo che le coppie in crisi presentano, ad esempio nel setting della mediazione, si connota proprio nel fatto che dell'Altro di cui ci innamoriamo, sempre di meno siamo disposti ad accettare la sua evolutiva natura alterante, mentre invece ne invochiamo, consapevolmente o meno, una radicale funzione rassicurante che si traduce nell'impossibile richiesta che l'Altro sia come me, il che, se non succede: produce la crisi e, se succede, produce ugualmente la crisi, poiché il desiderio dell'Altro, il piacere dell'Altro, il senso dell'Altro, sta proprio nel fatto che l'Altro non mi è coincidente e in quanto tale lo desidero, mi manca.

Cercare nell'amore la conferma di quello che già di noi sappiamo, significa sbagliare bersaglio, poiché l'amore, quando è vero, mette a repentaglio la nostra identità, non la certifica, l'amore è fatto per perderci (come ben testimonia il momento clou dell'innamoramento) non per trovarci o, meglio, per perderci ogni volta che ci troviamo.

Pensare di trovare nell'amore quello che l'amore, soprattutto oggi, non può darci, sembra tuttavia essere il grande smarrimento dell'uomo contemporaneo. E, infatti, quando non accade, quando l'Altro che amiamo non è la rassicurante figura pronta a certificare la nostra identità per come la intendiamo, allora emerge la crisi, la paura, lo smarrimento, a volte la vera e propria angoscia.

Forse anche per questo, pure quest’anno, come ormai tradizione dal 2006, il maggior numero di omicidi in Italia si sono consumati tra le mura di quel rassicurante luogo che è la famiglia, superando persino gli omicidi della criminalità organizzata, tanto che, invece del invocato poliziotto di quartiere, vien quasi da pensare che serva il poliziotto da salotto.

È di dominio pubblico il dato agghiacciante che dall'inizio del 2012 sono già 92 le donne morte ammazzate da loro mariti, compagni, fidanzati, insomma persone che, per usare un eufemismo, le amavano -per capirci, di soldati italiani impegnati nella guerra in Afghanistan ne sono morti poco più di 50, ma dal 2004.

Meno all'attenzione della cronaca, ma altrettanto allarmante, è invece la statistica delle donne che utilizzano la denuncia di maltrattamento in famiglia come espediente per liberarsi dal marito e, soprattutto nelle cause di separazione, assicurarsi l'affidamento dei figli. Secondo un recente esposto al Senato solo 2 denunce su 10 si rivelano fondate.

Se è vero come suggeriscono le statistiche che, tra matrimoni e coppie di fatto, ci sono ogni anno sempre più coppie che si separano e sempre meno che si sposano. Se è vero che in dieci anni, dal 1995 al 2010, le separazioni sono aumentate di oltre il 68% e i divorzi sono raddoppiati, portando la media della durata dei matrimoni attorno ai 14/15 anni… Se è vero che i figli dei divorziati hanno un'elevata percentuale di possibilità in più di essere a loro volta potenziali divorzianti… Allora, sembra anche conseguente ipotizzare una possibile società, neanche troppo a venire, in cui avremo famiglie sempre più allargate (per così dire) costituite in secondo o terzo matrimonio, con figli al seguito che basculano tra una coppia e l'altra. Una società che, allo stato attuale delle cose, e in assenza di opportune attenzioni preventive e curative, vedrà, tutti contro tutti, contendersi il possesso di bene mobili e immobili, compresi quei beni che chiamiamo figli.

In una società dove amore e matrimonio coincidono ma, paradossalmente, finiscono per risultare maggiormente compromessi e non tenere il passo della stabilità, è necessario allora che nasca una forza che si ponga come argine al dilagare dei possibili effetti deleteri dei fenomeni che, seppur approssimativamente, abbiamo cercato di descrivere.
È necessario, cioè, fare cultura di altre forme di amore che risolvano la dicotomia tra i modi con cui abbiamo imparato ad amare e queste nuove forme d’amore tanto complesse che sembrano sfuggire alla nostra comprensione.

Personalmente, penso e pratico così la mediazione, tenendo al centro non tanto il classico obiettivo degli accordi di separazione, ma la possibilità di costruire, insieme alle parti, i presupposti di un “amore diverso", un amore che possa continuare, separati o insieme, a comprenderci e a farci comprende, provando a garantire il bene di entrambi e, soprattutto, di quei minori coinvolti che non hanno scelta e, se loro malgrado subiscono il divorzio, non devono e non possono subire la follia di due adulti che, utilizzando il loro passato (figli compresi), fanno di tutto per cercare reciprocamente di rovinarsi il futuro.

La mediazione, allora, in questo senso può emanciparsi dalla sua configurazione riduttivamente segnata dalla separazione, per aprirsi al suo carattere eminentemente preventivo che lavora nella crisi o addirittura la anticipa, ma non per ricongiungere o per sparare (tentativi entrambi che sembrano spostare la mediazione in una zona che non pertiene al mediare ma al giudicare), ma affinché ogni coppia, e i suoi singoli componenti, trovino il modo migliore per vivere la loro relazione amorosa, sia che questo avvenga all’interno della coppia o aiutandoli a scinderla per costruire soluzioni più adeguate ma sempre segnate da forme di amore costruttive e propositive e, tanto più presenti e manifeste, quanto più la storia della coppia sarà stata generativa di esperienze, e soprattutto di quella esperienza che è la nascita di un figlio.

Ma fare cultura di un nuovo modo di intendere e vivere l'amore significa non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie giungano in mediazione prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione o di una riparazione forzosa, e non per una qualche inibizione al divorzio di ispirazione religiosa, ma perché le diverse e molteplici questioni, che abbiamo cercato, seppur brevemente, di elencare, sempre più rivelano la crisi non tanto a partire dal classico: “Non ti amo più”, ma, per quanto non sempre consapevolmente, dall'insolito e post-moderno: “Io non so più come amare”.

Costruire una nuova cultura dell'amore coniugale, significa allora lavorare con le giovani coppie che si stanno formando, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. E significa lavorare nelle scuole, e comunque con le nuove generazioni, ribaltando completamente quell'eufemismo dell'amore che è l'educazione all'affettività, per introdurre, in ognuno di questi percorsi, alcuni elementi fondamentali come, ad esempio, oltre alle già citate rivisitazioni del concetto di dipendenza, di libertà e di felicità…

Una sana educazione al conflitto, affinché non si manifesti la sua sola configurazione distruttiva o la sua negativa rimozione, ma lo si sappia fare convivere positivamente e costruttivamente come fondamentale e ineludibile elemento di crescita che, per altro, prescinde dalla coppia ma si apre alle relazioni tutte.

Una sana educazione alla sessualità, in grado di fare emergere la dimensione giocosa e feconda dell'atto sessuale, deprimendo al contempo ogni forma di possesso in cui l'Altro che dico di amare é ridotto da soggetto ad oggetto, nel senso di qualcosa di determinabile e indipendente dalla sua storia e della storia che accade attorno a lui e, quindi, non soggetto alla mutevolezza dei cambiamenti -e questo è lavoro che coinvolge non solo le nuove generazioni ma anche, e forse soprattutto, i genitori, i neo genitori dove la possessività fa il suo esordio e li va, non soppressa, poiché ha una sua funzionalità evolutiva, ma sicuramente regolata.

E, non per ultima, una sana educazione al desiderio, materia mai come oggi così difficile da trattare, in una società che spinge, in ogni dove e senza soluzione di continuità, alla reificazione dei desideri, tanto che, a forza di vedere i nostri desideri materializzarsi stiamo perdendo la capacità di desiderare, fors'anche di desiderare l'amore.

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