Perché amare non basta

Anna e Patrizio vennero in studio dicendo che la loro vita era diventata un inferno e che altro non c'era che separarsi.

Scoprimmo, invece, nel corso delle nostre riflessioni, che il male oscuro che li aveva colpiti poteva essere medicato; che le scenate folli di cui Patrizio era protagonista (senza sapere, peraltro, da cosa scaturissero), potevano essere curate, proprio da Anna, con opportuni stratagemmi e non contrastate con mutismi, abbandoni, accesi conflitti che altro non facevano che esasperare quelle crisi.

Forse un approccio più ortodosso avrebbe diagnosticato il disagio di Patrizio come Disturbo Ossessivo Compulsivo, un DOC da relazione, con conseguente profilo etichettante e, magari, somministrazione di farmaci.

 Amore in MediadoE, in effetti, Patrizio, mostrava tutti i sintomi di questo malessere: con la sua ricerca esasperata del rapporto perfetto, della perfetta sintonia sessuale, insieme all'incapacità di accettare gli umori negativi di Anna, le sue giornate no in cui aveva bisogno di essere rassicurata, anziché rassicurare.

Ma l'ansia di Patrizio non gli permetteva di stare insieme a una persona con le sue normali fragilità, lui sembrava aver bisogno di un'entità più o meno divina e, quando non la trovava, iniziavano i ripensamenti, l'ossessivo “t'amo non t'amo” che aveva portato a sfogliare ogni margherita del pur nutrito e paziente campo di Anna. Negli ultimi tempi poi, “le rogne”, come le chiamava lui, erano diventate praticamente quotidiane e con loro gli “esami” cui Patrizio sottoponeva Anna e il loro amore.

Marco e Roberta invece, dopo tante incomprensioni, mai veramente denunciate e elaborate, non avevano trovato altro rimedio che tradirsi: lui con il suo lavoro, lei con un altro uomo.

Marco che aveva iniziato a passare sempre più tempo fuori casa perché il lavoro chiama e le gratificazioni (economiche e non) sollecitano la voglia di protagonismo. E poi c'è Roberta e il piccolo Enrico che meritano il meglio e lui vuole darglielo. Così, per la famiglia si comincia, paradossalmente, a stare sempre più assenti dalla famiglia, finché i litigi soppiantano la complicità, la rabbia soverchia la tolleranza.

Roberta lo aspetta, lo aspetta finché può aspettarlo, finché ci riesce, finché il senso di solitudine, di abbandono glielo consentono, finché quell'assenza non le si torce contro e diviene il peso del suo fallimento, del suo sentirsi inutile, brutta, disprezzata. È allora che arriva Giulio che, invece, c'è. E la guarda, la cerca, la fa sentire la donna che Roberta vuole essere.

Infine, Luisa e Antonio, che si allontanano iniziando ad allontanare i loro reciproci interessi, pensando che, in fondo, sia giusto che ognuno coltivi le sue passioni, che insegua i suoi desideri; che se a lei piace leggere un bel libro e a lui guardare lo sport in Tv, si può passare anche una serata così, perché, per amore dell'Altro, si può -e forse si deve- rinunciare un po' a se stessi; perché, per amore di sé, si può -e forse si deve- rinunciare un po' al «noi».


Solo che, senza accorgersene, lentamente, queste rinunce diventano la norma: lo straordinario si ordina nell'ordinarietà del quotidiano fino a che di quel «noi» che Luisa e Antonio erano insieme, non rimangono che vaghe tracce nelle imprescindibili movenze della sopravvivenza: fare la spesa, occuparsi del casa, le bollette che scadono, il mutuo, la visita alle famiglie di origine... .

Tre piccole storie di ordinaria crisi di coppia. Tre storie che raccontano che amare non basta, non è sufficiente e che, ad ogni sacrosanta parola d’amore, deve necessariamente seguire un gesto d’amore, un gesto di cura che risponda a quel richiamo con cui in tanti, infiniti modi (più o meno adeguati, più o meno patologici), noi umani lanciamo nel cosmo un grido sempre parimenti colmo di incommensurabile gioia e di incommensurabile dolore: “Ti amoooooooooo!”.

Un grido che, apparentemente, sembra restituire la sola nostra infatuazione per l'Altro: il bisogno di amare, un darsi a prescindere, incondizionato, ma che sottende invece un'altra profonda e spesso inconscia richiesta: “Amamiiiiiiiiii!”.

Se fossimo davvero capaci di amare a prescindere, di amare incondizionatamente, di amare fermandoci all'urlato “Ti amooooooooo!”, l'amore sarebbe l'ultimo dei problemi dell'umanità ma, forse, non sarebbe amore.

Tutte le difficoltà ma, soprattutto, l'irresistibile fascino e il profondo, fisiologico bisogno d'amore, la sua bellezza, nascono, invece, dal fatto che amare non basta, perché, quello che in fondo vogliamo è amare per essere amati o, similmente, essere amanti per poter amare.

Amare non basta perché l'amore, quello vero, quello sano, trova compimento solo nel vicendevole scambio della relazione e qualsiasi deformazione onanistica che non preveda la fusione tra il mio bisogno di amare e il mio bisogno di sentirmi amato, apre la porta al campo del malessere, quando non della patologia.

Se si può amare unidirezionalmente un figlio o un genitore, un fratello, un amico, ma nell'amore di coppia non si può amare senza essere amati o, meglio, purtroppo si può, ma quando succede la domanda da farsi non è: “Perché non mi ami?”, ma: “Perché ti amo se tu non mi ami?”.

Ed è domanda che spalanca, con diversi gradi di difficoltà, la strada del lavoro su di sé, sulle proprie insicurezze, le paure, i traumi, le mancanze, i bisogni profondi, le proprie fragilità.

Non è, insomma, domanda con cui semplicemente interrogare l'Altro, colpevole di non amarmi o, come nella gran parte dei casi, di non amarmi come io vorrei essere amato, ma è domanda che, invece, deve interrogarci per spronarci a pretendere l’amore che vogliamo, foss’anche per capire che non è l’Altro che amiamo che può donarcelo.


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