La giusta distanza

Arthur Schopenhauer, nel suo “Parerga e paralipomena”, racconta la famosa storiella di due porcospini (ripresa successivamente anche da Freud) che s'incontrano in un giorno d'inverno. 

Fa molto freddo e i due, per evitare di morire assiderati, decidono di accoccolarsi l'uno accanto all'altro ma, appena ci provano, ecco che le spine che contornano i loro corpi entrano in azione producendo un così forte dolore da costringerli ad allontanarsi. Tuttavia, la notte incombe, il freddo aumenta e quel calore provato, pur per poco, pur immediatamente sviato dal dolore, è stato qualcosa di così piacevole... come mai avevano provato prima. Nuovamente, allora, tornano ognuno a cercare il calore dell'Altro ma, miodio, questa volta il dolore è così intenso, che i due fanno un balzo indietro, urlando.

Ora, la sofferenza è tale che i due dovrebbero desistere, eppure qualcosa inspiegabilmente ancora li attrae, come se capissero che, al di là del freddo che li ha fatti incontrare, c’è -in qualche modo- una gioia più profonda che dipende davvero dalla capacità di accettare il rischio di quel dolore per riprovare ancora il piacere di quel calore. 

 Amore in MediadoCosì, non demordono. Ci riprovano: ancora e ancora e, piano piano, con gli opportuni accorgimenti, trovano una distanza adeguata, la migliore, affinché dolore e piacere siano sufficientemente commisurati in una giusta dose di ben-essere .

Ecco una bella metafora del lavoro cui è chiamata ogni coppia d'amore: “trovare la giusta distanza affinché dolore e piacere siano sufficientemente commisurati in una giusta dose di ben-essere”, trovare la giusta distanza affinché il dolore che proviamo per ciò che la presenza dell'Altro di me sottrae o minaccia di sottrarre, sia adeguatamente ricompensato dal piacere e dal benessere che, invece, la sua presenza arreca.

Infatti, per quanto l'uomo sia un animale sociale che si desidera e si cerca (e non solo per riprodursi), avvicinarsi all'Altro fino al punto di vivere con lui sotto lo stesso tetto, non è mai cosa semplice, e oggi tanto più di ieri .

Vivere con l'Altro significa far sì che quel «noi» che si deve necessariamente generare affinché il singolo si trasformi in coppia, si accaparri almeno un pezzo di ognuno degli «io» in gioco e che, ugualmente, ogni «io» si doni (doni la sua «i» o la sua «o»), affinché la forma del «noi» possa compiersi.

Tuttavia, questa manovra, pur complessa, è solo metà dell'opera da realizzare per proteggersi dalla crisi. 

Infatti, mentre si costruisce il «noi», risulta altrettanto necessario che l'«io» di ognuno non scompaia, non finisca schiacciato dal quel «noi» senza più riconoscere chi è e cosa vuole, perdendo cioè quell'identità di cui l'Altro «io», quello del partner, si era innamorato.

Emerge così, che questa distanza da cercare è qualcosa che implica, al contempo, una vicinanza («noi») e una lontananza («io»), palesando quel carattere paradossale dell'amore che incontreremo ancora molte volte in questo nostro girovagare tra i suoi confini.


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