Nelle mani dell'Altro

Nel post "Amarti come un cieco" riflettevamo su come ogni storia d'amore accolga in sé molteplici e sfuggenti combinazioni: emozionali, contestuali, culturali, epocali, razionali, irrazionali e persino biochimiche (vedi il post: "Ti amo... da lontano")... 

Elementi che, tutti, si mescidano e, tutti, compartecipano nel generare il mistero dell'innamoramento e del suo opposto, il disamoramento. 

Certo, l'innamorato interrogato dirà che di lei o di lui ama quella tale cosa o quel tal'altro aspetto e, ugualmente, il disamorato affermerà che il suo amore è finito per questo o quell'altro motivo... Tuttavia, le cause per cui una storia d'amore nasce o muore sono così complesse, articolate e profonde che, nessuno, nemmeno i loro protagonisti, ne sono mai davvero e fino in fondo consapevoli.
Ma allora perché, da qualsivoglia sponda dell'amore ci troviamo: innamorati o disamorati, abbandonati o abbandonanti, non siamo capaci di accettare, per davvero e totalmente, la bellezza di questo mistero, rimettendoci a lui per coglierne le gioie o per viverne evolutivamente i dolori ma, invece, ci danniamo perché vogliamo capire? 

Si tratta, il più delle volte, di un meccanismo di difesa con cui tendiamo a proteggere la nostra fragilità, perché questo amore cieco, questo amore che non vuole capire "Perché mi ami?", "Perché non m'ami più?", ma solo darsi finché amore c'è da dare, ci spinge su un dirupo pericoloso che mette a repentaglio la nostra identità, che ci dispone in tutta la nostra nudità e con tutte le nostre debolezze nelle mani dell'Altro e della sua intrinseca capacità alterante. Insomma, per quanto desideriamo amare, raramente siamo disposti ad accettare ciò che l'amore nascente o morente davvero pretende: trasformarci, offrirci la straordinaria possibilità di essere altro da noi. 

Abbiamo già accennato nel post "La verità delle menzogne" del carattere prettamente immaginifico con cui l'Altro, proiettando in noi l'immagine del proprio desiderio, ci trasforma in qualcosa che non siamo o, meglio, che spesso siamo solo in nuce, qualcosa che potremmo essere. 

È questa immagine che l'amante rincorre coltivando il desiderio. È questa immagine con cui, colui che amiamo, è chiamato a confrontarsi abbandonandosi, se può, alla sua prolifica forza alterante, cercando di emularla ma cercando, al contempo, di non coincidervi mai totalmente, pena la sovrapposizione tra l'immagine desiderata dell'amato e l'immagine reale dell'amato, sovrapposizione che provoca la caduta del desiderio. 

È, inoltre, questa non perfetta coincidenza a rendere possibile l'alterazione dell'amante, nel suo sforzo di mutarsi per raggiungere l'immagine sfuggente dell'amato. E, infine, è questa capacità di abbandonarsi alla misteriosa bellezza dell'alterazione a renderci capaci di accogliere la morte dell'amore, non mitigandone il dolore, ma rendendo possibile la sua esperienza evolutiva.  Insomma, finché accettiamo la forza alterante dell'amore, anche l'amore dura e prospera, persino quando giunge alla sua fine (quell'amore diverso di cui tanto abbiamo parlato in questo blog), poiché questa è la natura profonda dell'amore: permettere ad ognuno di giocare ad essere altro da sé, scoprendo quanto tanto altro c'è da essere. 

Mettersi nelle sue mani, quando l'amore divampa, affinché il loro tocco ci plasmi aiutandoci a conquistare ciò che non siamo e dimettersi dalle sue mani, quando l'amore scema, contemplando ciò che mai saremmo stati e quanto ancora potremmo essere (nel bene e nel male) grazie -appunto- all'incontro con l'Altro. 

La bellezza di questa forza alterante deve, a mio avviso, trovare spazio in ogni processo di mediazione familiare, soprattutto (ma non solo) quando questo amore ha generato un figlio, estrema rappresentazione di questo benefico percorso di alterazione.

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